QUELLA VOLTA PER STRADA
Puttana. Sporca, lurida puttana. Io ti ammazzo come una cagna, ti taglio le orecchie e le appendo con un solo chiodo a questo muro sporco di piscio e vernice andata. Maledetta puttana, non hai nemmeno idea di quanto il mio spirito odi quel tuo corpo da femmina che vai a vendere al mercato dei finocchi, non hai nemmeno idea di quanto tu mi faccia schifo con quel trucco esagerato: una maschera per fare pompini e dire qual è il prezzo della tua figa o di quel tuo culo caga stronzi che fa gola agli assassini della civiltà. Puttana.
Rido come un matto, «iiiiiiiiiiiiiih!!!» urlo, prendo un pacco di post-it giallo fluorescente e ne stacco uno. Prendo la penna sul tavolo, quella schifosa penna, strumento per scrivere, firmare e mettere su carta porcate inutili e schifose, ma non questa: Picchia una puttana di merda, scrivo. Rido. Rido di gusto, la serata aveva un aspetto niente male ora che aveva preso questa direzione. Come? Con un martello? Si! avrei potuto stringere i capelli con la destra e picchiare forte il martello o sulle ginocchia di lei, seduta nell’abitacolo, o dritta in faccia. Che noia, mi sto già annoiando. Non voglio. Voglio fare e basta. Via, via, via. Esco di casa e chiudo la porta del cesso dove io e la mia sorellina-caccia-fichetta abitavamo, sicuro che dopo aver visto una troia una scopata con mia sorella me la sarei fatta volentieri, insomma… è caccia no? Si va a caccia di donne stasera! Una bella scopata prima di farmi il mio brodo in vena ci sta, direi. Più che meritata.
Entro in macchina e come prima cosa attacco il post-it Picchia una puttana di merda sullo specchietto retrovisore. «Puttana!» grido. «Ti distruggo cazzo!». Faccio manovra come un matto urlando il mio grido di follie «iiiiiiiiih!!!» e in un attimo, dopo alcune vie fatte ad alta velocità, sono nella strada del commercio dei corpi, quelli schifosi, senza morale, che illudono uomini senza palle di essere ancora delle merde desiderabili. Quanto schifo. Quanto odio. Devo un giorno, o una notte, pescare anche uno di quelli e segargli le gambe, così per andare a troie ci deve andare si con le quattro ruote, ma in carozzina il coglione.
«Eccola! Schifosa! Maledetta! Tu… Tu sei finita. Non hai nemmeno idea di che notte sia questa per te! Non hai nemmeno idea di chi stia arrivando!»
Mi avvicino lentamente con la macchina alla puttanella e abbasso il finestrino. Dio, che schifo. Ma guardati, tesoro, sembri un manichino vestito dalla spazzatura. E quei capelli raccolti indietro? Cazzo ma ci hai anche messo della lacca? Fai vomitare. Il tuo trucco fa vomitare, colori messi a cazzo, giusto per accendere quello sguardo da pesce morto che ti ritrovi. La tua testa si spaccherà. Sangue, lo assaggerò. Le dita te le taglio. Te le taglio, a differenti lunghezze, così SE rimarrai viva ti ricorderai per sempre della mia direzione artistica e… avrai delle mani che faranno cagare. Ti ammazzo di botte, puttana, ma presentiamoci prima.
«Ehi… Buonasera. Come ti chiami?»
«Ciao, Dorothy. Facciamo un giro?»
«Posso chiamarti Isabel?»
«Certo amore, puoi chiamarmi come vuoi!»
«Bene, Isabel. Monta su, ti porto in giostra»
Isabel. Ho scelto a posta questo nome perché è il nome di quella santa ciuccia cazzi di mia madre, quella che voleva che le leccassi la figa già all’età di sei anni. Maledetta.
Isabel, la tua puzza così volgare, il tuo profumo così scadente mi stanno facendo salire i diavoli su nel cervello, la furia nel petto, il fuoco in gola. Isabel. Quanto ti farò male.
Mentre guido per una frazione di secondo mi scende una lacrima di rabbia, perché sto pensando a Isabel, a quella che mentre si sventolava col giornale usava l’altra mano per premere la mia testa contro la sua figa. Maledetta. Perché sei morta? Perché? Tu non hai idea cosa avrei fatto alla tua vagina.
«Caro tutto, ok?»
«Certo, mia cara Isabel. Dove vado?»
«Infilati in questa strada a destra e svolta alla prima a sinistra. Lì c’è un parcheggio, fermati la, non c’è nessuno»
«Sicura?»
«Si, sicura»
«E il tuo pappone?»
«Non ho un pappone, faccio da sola»
«Isabel, cara, non ti ho nemmeno chiesto. Quanto vuoi per una prestazione?»
«Quaranta euro vanno bene, caro. Sei molto gentile sai? Ma perché questo nome, Isabel?»
«Oh, da piccolo guardavo una serie tv dove la donna dei miei sogni si chiamava Isabel, spero non ti dia fastidio»
«No anzi» Ride, la troia. «Mi fa piacere che tu mi dia lo stesso nome della donna dei tuoi sogni… Eccoci, parcheggia lì»
Parcheggio la macchina.
Nella tenebra.
C’è solo un lampione che dimostra essere parecchio debole per poter illuminare tutto il parcheggio, sembra quasi un patetico tentativo fallimentare.
Buio e noi. Finalmente assieme Isabel.
Rido, rido di gusto mentre Isabel comincia a sgranare gli occhi cercando di cogliere il motivo della mia reazione a questa buffonata. Ti spacco, eccome se ti spacco, ti faccio esplodere le cervella suon di colpi sul cruscotto.
«Bene Isabel, eccoti i tuoi quaranta euro»
Isabel li prende ringraziando. Puttana. Appena messo via il portafoglio nella borsetta, appoggiata sul lato del sedile contro la portiera, ecco che si tira bene indietro l’elastico per capelli. Tu? Credi che infilerai il mio cazzo nella tua gola? Tu credi che il tuo schifoso corpo possa darmi qualche gioia? Ma nemmeno le sinfonie malefiche di satana me lo farebbero rizzare figurati tu, massa di carne e ossa, stupida come una gallinaccia da fare.
«Aspetta Isabel, voglio toccarti la coda. Posso?»
«Certo caro, sei dolce sai?»
Accarezzo la coda una volta, una volta sola perché ho il ribrezzo a sentire quei capelli appiccicosi di non so che cazzo di prodotto e lentamente e dolcemente per non spaventarla, come se facesse parte dell’amplesso, mi annodo i suoi capelli nella mia mano che ora appoggio salda dietro la sua nuca.
«BASTARDA! ALL’INFERNO!!!»
Lei apre la bocca per lo stupore e io spingo con rabbia, furia, ira, il capo contro il cruscotto. Rido! Cazzo è già cotta! Con un colpo! Ripeto e ripeto penso fino a otto volte. Il sangue mi sale alla testa e comincio a sentire un’erezione prepotente farmi male contro il tessuto stretto dei jeans. Le infilo un pollice nell’occhio e la spingo contro il finestrino. È diventato un cazzo di sacco di patate ormai da un pezzo. Sto ansimando.
«Si, cazzo!» mi sento vivo, ho una scarica di adrenalina che potrebbe tenermi in piedi per un anno, magari a picchiare altre stronze o qualche rammollito. Dio, come sto. Respiro. È aria buona. È aria sana. Il corpo si è rigenerato ma voglio farmi una sega accanto a questo mezzo cadavere, giusto per il gusto di fare schifo, di vivere lo schifo, lo schifo e l’odio, miscelati bene, da sentirli ben piccanti in gola e cogliere la natura del male che passato il piccante, è così dannatamente seducente.
Sposto le cosce in la di questa merda e apro il vano porta oggetti. Prendo le forbici da giardinaggio. Afferro la maglia della troia e le taglio in due maglia e reggiseno così da avere queste tette da puttana, niente male, e una pancia che suggerisce giochi con una punta di coltello. Con la mano destra raccolgo un po’ di sangue dal volto fracassato e lo spargo sul suo seno mentre con la sinistra comincio a muovere su e giù il mio pene, tirato fuori prima di tutte queste stronzate, bello duro. Su e giù, mentre la mia mano le tocca il seno ora fradicio di sangue. Decido di aprirle la gonna, con le forbici. Su e giù e la mia mano tocca la sua dolce patatina fotti soldi, anche questa sporca e inumidita da tutto il sangue che ci porto con la mano dal suo volto. Su e giù. Torno alle tette. C’è silenzio, tanto silenzio, si sentono solo i rumori del sangue contro le mie dita. Quanto sangue, quanto. Mi manca il respiro, cazzo vengo, cazzo sto per venire. Vengo! Il mio pene spruzza un vulcano di lava bianca, imbrattandomi la mano. Compio le ultime mosse, giusto per godere di più come con le prime seghe e via, schiaffo tutto in faccia alla troia.
Appoggio la testa al poggiolo. «Fanculo cazzo, che storia…»
«Burpf-ghhhhhh!»
«Isabel, brutta cagna, perché non dormi? Finiamola qui che a vederti così è vero che ti scoperei ma è anche vero che mi farei un pompino con la tua testa staccato dal tuo collo da troia… Ma non oggi»
Il sangue stava tornando al cervello. In un lampo.
Apro la portiera di scatto, faccio il giro dell’auto fino al posto di Isabel, apro e trascino questa feccia ansimante a bordo strada.
«Mammina, purtroppo per te… Non è finita qui, questo farà male.»
Torno all’auto, apro il portabagagli e afferro la tanica di benzina da cinque litri e torno da Isabel.
«Ti sarebbe piaciuto toccarmi il cazzo un’altra volta vero mammina?»
Dico mentre verso la benzina su questo schifo che respira a malapena
«Uuuuuuuuuuuuuuuuumpf!! Uuuuuuuuuuuuuuuumpf!»
«Te l’ho detto che farà male»
Lancio la tanica e do fuoco al corpo che urla come uno sporco peccatore che sconta la sua pena all’inferno. Puttana. E puttana te, madre. Lo vedi cosa so fare? Tu non hai nemmeno idea cosa avrei fatto a te. Questo è solo un giochetto di una sera con una povera ciucciacazzi.
Vedere e sentire queste merde che bruciano mi rilassa sempre tanto. Lamenti, gesti ora scattosi ora simili ad una danza. Mi rilassano. O forse mi ha fatto un gran bene quella sega in macchina toccando le tette di Lady Carboncino tutte fradicie di sangue e saliva. Cazzo che goduria.
Torno alla macchina e torno a casa. Di scopare mia sorella ora non ho voglia, magari giusto un pompino. Domani al rogo sti coprisedili e tappetini. Grande pulizia alla Betty, che mi porta sempre in giro a godere questa notte come se fosse la dama che amo ma che non potrò mai avere.
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